IL RETAGGIO DEL COVID
1. Premessa
Con l’avvio della c.d. “fase 2“, e sperando che gli ormai prossimi allentamenti delle restrizioni non ci portino ad un ritorno alla “fase 1”, si può iniziare a guardarsi indietro e cercare di razionalizzare con un punto di vista non solo sindacale ma di esperto di Pubbliche Amministrazioni l’esperienza che abbiamo passato e che tuttora stiamo vivendo. 
Analizzando in questo modo gli eventi si può cercare di capire se la pandemia del COVID-19, la più grande dopo “l’asiatica” del 1959, oltre al tanto dolore e ai traumi economici e psicologici che hanno sconvolto buona parte del mondo ha portato o può portare ad un qualche cambiamento permanente nella società occidentale, specificamente in quella italiana e, per essere ancora più precisi, nell’organizzazione delle Amministrazioni Pubbliche.
2. La situazione prima del COVID-19.
Partendo dal presupposto che le Pubbliche Amministrazioni in Italia si possono dividere in due gruppi, quelle centralizzate e quelle locali, e che per forza di cose (la necessità di raccordare gli uffici centrali con quelli periferici) mentre nelle prime nel corso delle ultime tre decadi  si è verificato un aumento vertiginoso delle procedure informatiche online, nelle seconde l’uso dell’informatica è stato per lo più rivolto ad agevolare e velocizzare lo svolgimento di attività che però sono sempre state svolte da singole postazioni di lavoro non comunicanti tra di loro, o al massimo comunicanti con un server aziendale scollegato dal web e per le quali pertanto non era possibile lavorare fuori dagli uffici, limitando dunque in massima parte l’operatività alla semplice lettura e risposta alla posta elettronica.
Stando così le cose, nel momento in cui per affrontare la pandemia il DPCM (i cui contenuti sono poi confluiti nel d.l. 18/2020, poi L. 27/2020) ha stabilito che “…il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni…”    per alcune Amministrazioni è stato relativamente semplice adeguarsi, mentre per altre il modello proposto è risultato improponibile, e non solo e non tanto per il tipo di attività da svolgere, quanto per una differenza culturale nel modo di gestire i servizi resi all’utenza e, attenzione, soprattutto nel modo di gestire il personale dipendente.
 Ma andiamo per ordine.
I dipendenti pubblici sono circa il 14% degli occupati (fonte Centro studi ImpresaLavoro sulla base di dati Istat, Eurostat e Ministero dell’Economia). A fronte di tale numero (che va detto, è il quarto più basso in tutta Europa, risultando addirittura la metà di quello di paesi come Svezia (29%) e Danimarca (25%), ma anche solo inferiore, al 22% della Francia) la prima riflessione è che la scarsezza di personale pubblico (non solo sanitario) ha avuto una ricaduta importante sulla possibilità di affrontare la pandemia, ma immediatamente dopo anche che una attenta pianificazione e organizzazione del lavoro pubblico ha importantissimi riflessi su una serie di aspetti della società per niente trascurabili quali ad es. l’organizzazione delle famiglie e la mobilità urbana ed extraurbana.
Negli ultimi anni la sensibilità su queste tematiche è aumentata, ma non abbastanza; la legge che prevedeva nuove e più agili misure di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro è la n.124 del 2015,  la direttiva n. 3 del Ministro Madia che stabilisce gli indirizzi per l’attuazione di tale legge e la legge 81 che prevede il lavoro agile anche nel Pubblico Impiego sono del 2017 (“solo” due anni dopo…). Da allora  si sono visti progetti di telelavoro e di c.d. “lavoro agile” (termine da preferirsi al corrispondente anglofono  “smart working”), ma si tratta di esperienze timide e legate a percentuali irrisorie delle piante organiche, destinate per lo più a venire incontro a particolari situazioni del personale già reputate meritevoli di tutela dal CCNL, e per le quali pertanto si percepivano quasi come misure “obbligatorie”.
Alla base della riluttanza all’adozione di queste nuove ed innovative forme di lavoro, oltre al già menzionato gap informatico e alla difficoltà di alcune Amministrazioni di rendere alcuni servizi in modalità remota (ma si tratta di problemi tecnici risolvibili), c’è stato soprattutto come detto poc’anzi il problema dell’approccio culturale: la diffidenza dei politici amministratori pubblici (a tutti i livelli) e di una certa parte della Dirigenza a “svuotare” gli uffici e sperimentare ed avallare il lavoro agile, sulla base dell’equazione per cui se non ho nessuno da controllare e comandare fisicamente e in compresenza fisica nessuno lavora e (conseguenza psicologica probabilmente inconscia) il mio ruolo è inutile.
Se per i politici è comprensibile la paura di un cambiamento così importante, visto che non conoscono, né gli viene richiesto di conoscere, il funzionamento degli uffici pubblici, appare invece grave e francamente immotivata (se non per la ragione che esporremo infra) la resistenza al cambiamento espressa da (parte) della dirigenza.
Ecco quindi che le motivazioni addotte per non ricorrere al lavoro agile di volta in volta sono state le più fantasiose: dall’impossibilità all’inopportunità di svolgere il tipo di lavoro in remoto, dalla necessità per i vertici amministrativi e politici di avere il personale presente fisicamente in ufficio alla difficoltà di controllo del personale sia per quanto riguarda il rispetto degli obblighi di legge e contrattuali (orario di lavoro) che riguardo il rendimento (sic).
3. La pandemia.
Orbene, è stata l’attualità, e non tesi che potrebbero essere tacciate di essere di parte, che si è incaricata di smentire ognuna delle scuse avanzate per non adottare il lavoro agile, e proprio questo potrebbe essere il retaggio del COVID-19 nell’organizzazione degli uffici pubblici.
Partendo dall’ultima argomentazione, quella del rendimento del personale in lavoro agile (che nell’immaginario popolare sul pubblico impiego è la più diffusa),  può essere illuminante il caso del risultato raggiunto dall’INPS durante la pandemia:  con oltre 25.000 persone in lavoro agile a fronte delle 2/3000 abitualmente svolgenti le prestazioni fuori dagli uffici, “sorprendentemente” il volume della produzione dei servizi è aumentato (già dalla fine degli anni ’80 l’Istituto si è dotato di un sistema di monitoraggio delle attività che con gli anni è ormai giunto ad un livello di raffinatezza e di dettaglio tale da conoscere in tempo reale i numeri relativi agli utenti connessi, le loro attività e i dati di produzione di tutti i servizi). Ma anche le altre amministrazioni (quelle abituate a lavorare online!) non hanno sofferto particolari cali di lavoro.
Né d’altro canto si può dire che il fatto di “timbrare il cartellino” fisicamente sia stato in questi anni sinonimo di produttività e rispetto dell’orario di lavoro, almeno a giudicare dai fatti di cronaca che hanno addirittura visto la creazione di una nuova accezione del termine “furbetto” (e comunque va detto per correttezza che gli episodi di malcostume avvenuti riguardano una percentuale risibile sul totale dei dipendenti pubblici) .
Sorvoliamo sulle difficoltà tecniche ad implementare i servizi e sulla necessità di avere il personale presente fisicamente negli uffici, perché come si dice “potere è volere” e anche questo è stato ampiamente dimostrato dalla pandemia.
4. la fase 2.
Ma allora perché non si adotta questo benedetto lavoro agile? Perché non si punta sul potenziamento del lavoro agile con attività e sportelli telematici dove con le possibilità della tecnologia si possono comodamente contattare le Pubbliche Amministrazioni con mail o  in chat o addirittura anche in video adesso che si è visto che è possibile? Eppure questo porterebbe benefici anche all’utenza (quando si parla di mobilità urbana non ci si riferisce solo a quella dei dipendenti, ma anche a quella degli utenti che non sarebbero più obbligati a spostarsi per raggiungere gli uffici pubblici), aiuterebbe la gestione delle famiglie e contribuirebbe direttamente perfino al miglioramento dei bilanci delle amministrazioni, se è vero che a questo punto servirebbero uffici più piccoli e pertanto con minori spese di funzionamento e manutenzione.
Perché invece di incentivare il lavoro agile, con l’inizio della “fase 2”, in tutte le Amministrazioni la dirigenza sta premendo, contro ogni logica e perfino ogni prudenza, per riprendere fisicamente tutte le attività negli uffici, arrivando a dire in qualche caso che occorre “riaprire” gli uffici (dimenticando che questi non sono mai stati chiusi ma hanno solo cambiato modo di interagire con l’utenza)?
5. il vero problema.
La risposta all’interrogativo suesposto sta, banalmente, nella Dirigenza, nelle modalità di reclutamento e nel suo ruolo..
E qui ritorna prepotentemente la dicotomia tra i tipi di Amministrazioni Pubbliche.
Nelle amministrazioni centralizzate infatti, negli anni e a più riprese, con l’intento di eguagliare altri modelli stranieri, anziché valorizzare e privilegiare l’esperienza dei dipendenti si è voluta creare una classe dirigente professionista attraverso concorsi pubblici e i corsi concorsi della scuola superiore della P.A., prevedendo per gli interni solo la possibilità di una piccola riserva dei posti nei concorsi pubblici. Una scelta che, ahimè!, ha completamente scollegato la Dirigenza dalle Amministrazioni nelle quali poi si è trovata ad operare.
I dirigenti così arrivati  dalla Scuola superiore o dall’esterno (la stragrande maggioranza) infatti sono nati tali, tecnicamente e normativamente preparati, ma senza alcuna esperienza pratica sul campo dei servizi che rendono i propri Enti/Amministrazioni, e i risultati purtroppo sono sotto gli occhi di tutti!
Nelle amministrazioni locali invece questo tipo di problema ha avuto una valenza diversa e minore, perché i concorsi vengono fatti localmente e spesso i vincitori dei concorsi sono già appartenenti alle Amministrazioni, quindi in qualche misura conoscono gli uffici e i servizi, mentre hanno assunto un peso determinante, ancora una volta, l’arretratezza organizzativa e l’approccio culturale, con i dipendenti vincolati alla propria postazione di lavoro fisica e (secondo parte della dirigenza) in attesa di sapere cosa fare e come farlo.
A questo punto un paio di interrogativi riconducono ad unità la dicotomia tra le Amministrazioni centrali e locali: se i dipendenti sono in lavoro agile, che senso ha un dirigente in ufficio? E ancora, se i dipendenti sanno cosa fare, magari più e meglio dei dirigenti, e lo fanno anche da casa, senza arrivare a chiedersi se ha ancora senso la figura del dirigente, ecco che irrompe prepotentemente la necessità di ripensare il ruolo della Dirigenza.
E’ dunque svelato il vero motivo della riluttanza della Dirigenza (parte di questa) ad accettare il lavoro agile e della fretta di archiviare la fase 1 e ricominciare con la presenza fisica negli uffici: la paura del nuovo, ed in definitiva un puro spirito di autoconservazione.
6. Una proposta operativa.
Questa quindi è la situazione: da un lato abbiamo visto che il requisito dell’esperienza e della conoscenza del lavoro è stato messo da parte privilegiando le conoscenze teoriche e la minore età, come se questa fosse un valore assoluto anziché una fase transeunte della vita, e che i limiti di questa impostazione sono stati messi a nudo in tutta la loro drammaticità proprio dalla pandemia: una classe dirigente insufficiente a gestire l’ordinaria amministrazione (gli uffici funzionano solo perché il personale conosce il proprio lavoro e va avanti anche da solo) si è trovata impreparata a gestire l’emergenza non solo tecnicamente ma anche culturalmente, con i risultati che tutti abbiamo visto.
Dall’altro abbiamo toccato con mano la necessità assoluta di cambiare, superando l’italica resistenza al cambiamento, accettando nuove forme di svolgimento del proprio ruolo, reinventandolo e aggiornandolo alle mutate esigenze della società e delle Amministrazioni.  
Ecco, se dobbiamo riflettere su cosa ci ha tristemente insegnato la pandemia, sulle lezioni che ci ha inflitto e sulle quali adesso dovremo esercitarci per farci trovare preparati in un ipotetico futuro, i due aspetti sui quali bisognerà assolutamente intervenire sono: Da un punto di vista politico e organizzativo, un ovvio ripensamento delle scelte legate alla sanità pubblica, sia in termini di quantità di risorse umane e strumentali che di loro valorizzazione, nonché una strutturazione della protezione civile anche per questo tipo di eventi oltre che per altri tipi di emergenze tipo  terremoti e alluvioni , sulle quali ormai, verificandosi più frequentemente, esistono già delle prassi operative ben collaudate;Da un punto di vista normativo occorre assolutamente cambiare le modalità di accesso alla dirigenza, capovolgendo l’attuale situazione e prevedendo che a questa si debba accedere in massima parte dall’interno attraverso criteri meritocratici, ovvero concorsi interni, e solo residualmente attraverso concorsi esterni. E per questa restante parte, vi sia l’obbligo, una volta vinto il concorso, di prestare servizio come impiegati per almeno sei mesi, in maniera di conoscere dal di dentro le problematiche degli uffici, “sporcandosi le mani” con i lavori e confrontandosi sia con i colleghi che con l’utenza.
7. Conclusioni.
Certo, occorrerà definire tante cose riguardo al lavoro agile: buoni pasto, diritto alla disconnessione, volontarietà e rotazione del personale interessato ecc., ma ormai è chiaro a tutti che il lavoro agile non solo è il futuro, ma è anche più vantaggioso per le stesse Pubbliche Amministrazioni e la società, e  se prima non avremo risolto la questione della dirigenza, tutte queste questioni costituiranno solo dei tentativi di dilazione per ritardare l’inevitabile, con il risultato che prima che dalle parole si passi ai fatti, dovranno passare ancora anni e anni, con grave nocumento delle Amministrazioni e dunque, in definitiva, di tutti noi cittadini.

 

 Salvatore Bullara

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